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Maurizio Vanni

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Presente del passato

Solitamente si ritiene che un artista sia testimone del proprio tempo quando, come un sismografo che registra le grandi e le piccole scosse della società contemporanea, traduce i propri pensieri, sentimenti, stati d’animo attraverso proposte culturali di qualunque genere. La memoria più profonda del passato è spesso appannaggio delle arti che evolvono con il cambiamento sociale e antropologico della collettività. Di fatto, se esaminassimo la produzione artistica di due secoli differenti, potremmo giungere a comprenderne meglio lo stile di vita e di pensiero.

Per Manuel Felisi tutto ciò è vero solo in parte: certamente lui è un artista del proprio tempo, ma le testimonianze che ci sta lasciando non intendono essere sintesi in progress del qui e ora, piuttosto narrazioni di un presente che trova nel passato le chiavi per scoprire il futuro. Da una parte troviamo le sue “composizioni bidimensionali” legate a un concetto personalissimo di tempo; dall’altra le istallazioni che sono connesse a un’idea originale di spazio-tempo.

A chi gli chiedeva che cosa fosse il tempo, Sant’Agostino rispondeva: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più”. Felisi non si interroga su che cosa sia il tempo, ma semplicemente lo contempla nei suoi lavori, lo scansiona, ne ritma il suo scorrere, consapevole che non può fermarlo, ma cosciente di avere un’eccellente macchina del tempo per muoversi avanti e indietro a suo piacimento: la memoria per tornare nel passato e il sogno per proiettarsi nel futuro.

Felisi, un po’ come Sant’Agostino, propone l’interiorizzazione e la riduzione del tempo a “dimensione di coscienza”: non si tratta di un concetto che riguarda il mondo fisico, ma che coinvolge il non visibile attraverso il visibile. Il tempo, quindi, non è una realtà oggettiva che si può sentire o si può toccare, ma una modalità di misurazione appannaggio esclusivo dell’uomo. Il tempo vive solo nell’uomo manifestandosi, come scrive Sant’Agostino, nel presente del passato, presente del futuro e presente del presente. Il presente del passato coincide con l’archivio memoriale che immagazzina le nostre esperienze emotive, intellettive e sensoriali. Il presente del futuro corrisponde ai nostri obiettivi e alle mission della nostra vita. Il presente del presente non esiste in quanto nel momento in cui cerchiamo di comprendere il “tempo zero” questo è già passato.

Molti dei lavori di Felisi sono legati alla scelta di ciò che l’artista desidera riportare in superficie (presente del passato), ma il filtro sui propri ricordi collima con ciò che ritiene funzionale al presente del futuro per progettare la propria esistenza, manifestando il proprio essere attraverso il fare. Il presente del passato condiziona il presente del futuro: la nostra storia è il fondamento delle nostre scelte di là da venire. Senza passato non può esserci futuro. Senza memoria non è facile vivere perché corrisponde alla lucida ricerca che ognuno di noi opera sul proprio passato.

Felisi ha bisogno di progettare: il suo studio è un luogo dove lavorare, dove respirare brandelli di vita, dove toccare l’essenza di quegli oggetti che, di lì a poco, saranno ospitati nelle sue composizioni. L’apparente caos quieto è sostituito, dopo poche ore di permanenza, dalla sensazione che tutto abbia un ordine, un codice di apparizione, un assetto cromatico, un accumulo progressivo di forme e materiali che prima confonde, poi incuriosisce e infine illumina. Il pavimento è il primo luogo dove si stratifica la pittura, dove il colore vince sull’oblio dei bianchi e dei grigi. Felisi ama pianificare le sue composizioni scegliendo con attenzione i materiali prima di iniziare le sue sovrapposizioni: i tessuti colorati si uniscono a una garza grezza con la quale lavora nelle opere grafiche, tarlantana, e si mesticano con colore, materia colorata e, come in molte opere recenti, alla resina e alla cenere.

Le fantasie di stoffe, che rendono bizzarri i contenitori trasparenti che le contengono, si trasformano in strisce che saranno apposte sui pannelli lignei. Saranno le immagini fotografiche, stampate in assenza di bianco, a chiudere una composizione destinata a uscire da ogni schema convenzionale percettivo. “Amo il bello, adoro l’estetica – racconta Felisi durante il nostro primo incontro – e il rischio è sempre quello di essere eccessivamente decorativo”. Ma questi motivi fantasiosi e vintage, molti dei quali appartengono al suo passato perché scovati nella soffitta della nonna, vengono leniti dalla sovrapposizione dei materiali e risultano avere lo stesso effetto dei fondi oro delle tavole medievali: uno spazio astratto utilizzato per rappresentare il mondo del non visibile.

Provocatoriamente, potremmo affermare che sia la pittura la parte decorativa delle sue composizioni nelle quali i fondi articolati dalle sovrapposizioni materiche hanno il compito, oltre quello di creare lo spazio ideale per ospitare l’immagine fotografica, di annullare il concetto tradizionale di tempo. La divisione del palinsesto in forme geometriche regolari, in tessere di un mosaico concluso, seppur aperto, scandisce il ritmo del tempo come un vecchio metronomo. Felisi ci suggerisce un tempo esistenziale e soggettivo che trova nel passato la genesi del suo esistere e nel presente le orme del proprio passaggio.

Ne risultano lavori prevedibilmente imprevedibili nei quali la parte estetica favorisce una percezione estatica, soggettiva e trasversale. Di fronte ai suoi boschi, nonostante l’armonia compositiva impeccabile, l’importanza della tecnica passa in secondo piano e lo stupore prevale sul tentativo di comprendere i segreti dell’insieme. Non appassiona più come è stato realizzato ciò che sta colpendo la nostra attenzione, ma interessa assecondare la meraviglia, che immagino simile a quella sperimentata dai primi visitatori della “Camera degli sposi” di Andrea Mantegna che si ritrovavano col naso all’insù per capire ciò che, probabilmente, non poteva essere spiegato.

I suoi alberi prendono consistenza grazie al fondo, i rami sembrano dialogare con l’aria, ma è la forza dell’insieme a dominare la composizione, a determinare il ruolo della luce e della superficie. Nel cuore del quadro ci sembra di intravedere una specie di cerchio intorno al quale ruotano i rami in un lento moto centripeto. Una volta superato l’effetto visivo della luce, si inizia a intravedere la danza degli elementi decorativi che, quasi alla stregua di tecniche divisioniste o impressioniste, creano dinamismo e una strana, ma credibile illusione prospettica. Ciò che tecnicamente avrebbe dovuto essere astratto, improvvisamente si trasforma nel motore disciplinante dell’intera composizione.

Anche le sue istallazioni contemplano un utilizzo completo di uno spazio piegato al tempo: Felisi ricrea ambienti domestici del passato di famiglie meno abbienti che dovevano rapportarsi con tetti disastrati che permettevano all’acqua piovana di entrare e danneggiare mobili e suppellettili. L’utilizzo “reale” dell’acqua che scende dall’alto, alterando in modo irreversibile i mobili in legno, crea un dialogo “attivo” con il pubblico, lo responsabilizza e lo spinge ad un processo di fruizione personale e indipendente quasi come volesse assegnare ad ogni persona il destino del proprio lavoro.

Per l’artista milanese, il luogo diventa una dimensione memoriale da indagare, un’apertura dimensionale che, al di fuori del concetto tradizionale di tempo, deve trovare un legame esteriore ed interiore con l’opera che nasce site-specific. Ogni sua istallazione è un racconto, un’esperienza, un’esigenza, un pensiero stratificato che si manifesta auto-referenziale e al tempo stesso incompleto. In questo caso è l’acqua l’elemento portante, il filo conduttore tra pensiero, spazio, istallazione, azione e tempo. Acqua intesa come sorgente di vita e centro di rigenerazione. Sul piano fisico, in quanto dono del cielo, l’acqua è simbolo di fecondità e fertilità.

Sono proprio le istallazioni a farci capire meglio le composizioni di Felisi. L’utilizzo di elementi memoriali che lo rassicurano (stoffe appartenute alla nonna o vecchi mobili recuperati e inseriti nello spazio istallativo) sono contaminati e violati dalla materia colorata e dalla cenere nelle composizioni oppure dall’acqua nelle istallazioni. Ne risulta una sorta di passaggio alchemico che trasforma ogni cosa in un metallo prezioso solamente dopo averla fatta rinascere. La trasmutazione dei metalli in oro si inserisce nell’ottica evoluzionistica tipica dei filosofi neo-platonici che pensavano che tutta la creazione, corrotta a causa del peccato originale, tendesse a ritornare verso la perfezione originaria, allo stesso modo i metalli mutano verso l’oro, la forma più nobile della loro specie.

Di fatto, Felisi potrebbe essere un alchimista che ignora di esserlo: interroga la memoria archetipica dell’immaginario collettivo facendo emergere collegamenti più o meno diretti con il simbolismo alchemico. Il più delle volte non è l’artista milanese a creare il simbolo, ma è il simbolo, tramandato di generazione in generazione, che gli s’impone. Lui non fa altro che convertire la materia in forma che incontra il colore e la superficie per poi unirsi alla luce e alla raffinatezza suprema dello scatto fotografico, raggiungendo l’obiettivo di trasformare la realtà nella sua espressione più alta.

Maurizio Vanni

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