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C’è qualcosa che ci appartiene nell’opera di Manuel Felisi. Qualcosa di famigliare, che ci avvolge e sollecita i nostri sensi come un profumo che conosciamo (anche se non capiamo subito dove l’abbiamo sentito), come un’atmosfera che abbiamo già vissuto e che evoca i nostri ricordi. Ricordi sinestetici, che coinvolgono tutti i nostri sensi… Come quando entriamo in una casa che frequentiamo fin dall’infanzia, che riconosceremmo anche a occhi chiusi, per l’odore, per i suoni, per la superficie delle cose, per la particolare luce che l’avvolge. Felisi gioca con i suoi e i nostri ricordi. Ricordi che si perdono negli anni, nelle generazioni, sospesi tra ieri e oggi, tra memoria e attualità. Copre di una polvere intangibile i suoi lavori: la polvere delle stoffe fiorite delle nonne, di un tessuto un po’ liso e ingiallito ma sempre elegante, tanto demodé eppure così attraente; la polvere del tempo, quel tempo che Manuel sa fermare, nell’istante di uno scatto fotografico, di una colata di resina. E stanno proprio lì, in un limbo, tra immobilità e dinamicità, tra prima e dopo, i suoi fiori stampati sulla stoffa e dipinti con uno stancil, allo stesso tempo evocativi e decorativi, malinconici e gioiosi, passati e attuali. E a dispetto di questo loro clima sospeso, quasi metafisico, le immagini di Felisi sono sempre e comunque vitali, rivolte verso il futuro; dalla memoria sembrano voler trarre la forza, l’intuizione, la capacità riflessiva, ma lo sguardo è avanti, dritto verso il presente, se non addirittura il domani. È vero quanto sosteneva Alberto Savinio: la memoria individuale è fondamentale perché tante memorie individuali costituiscono la base di quella collettiva; ed è forse proprio questo il cardine della ricerca di Manuel: suggerire percorsi collettivi partendo da una dimensione squisitamente privata, dallo sguardo su un paesaggio naturale, da una riflessione generata da una foto o da un filmato di famiglia, dal ricordo legato a un abito o a un tessuto.
Il tempo nell’opera di Felisi sembra fermarsi, si diceva. Certo. Ma questo non significa che il tempo venga in qualche modo negato. Al contrario l’artista sembra volerlo affrontare faccia a faccia in ogni lavoro. L’indagine si compie spesso attraverso l’azione, mediante gli effetti prodotti dal tempo sugli oggetti, sulla realtà quotidiana. E per misurare il suo scorrere e il suo passaggio Felisi usa spesso l’acqua. Tanta acqua. Acqua che cade a pioggia, che inonda le cose, che passa lasciando traccia indelebile di sé, che genera reazioni da parte delle superfici, delle materie. Un pianoforte, una sedia vuota, una automobile, piccole-grandi icone del nostro mondo vengono sottoposte all’azione dell’acqua nelle sue installazioni, ma anche le tele che compongono le sue opere da parete nascono da una prima superficie prodotta da schizzi di acqua sporca: macchie che ne costituiscono lo strato più intimo, il livello iniziale, da cui l’opera germoglierà. Fioriranno poi superfici materiche dalla seduzione tattile immediatamente negata dalla resina che le ricopre; fioriranno immagini reali eppure evanescenti, quasi oniriche; fioriranno segni al contempo evocativi e decorativi: fioriranno e genereranno opere complesse e affascinanti, ricche di spunti di riflessioni ma mai troppo concettuali. In bilico, anche loro, tra la contingenza e l’eternità.